(New York 1923 – New York 1971)
Il vero cognome di Diane Arbus era Nemerov, ed era la seconda di tre figli di una ricca famiglia ebrea di origini polacche. I genitori, che dovevano la loro fortuna ad una catena molto nota di negozi di pellicce, i “Russek’s”, cercarono per i figli delle scuole che stimolassero la loro creatività. L’obiettivo fu centrato, tant’è che il fratello maggiore, Howard, diventò uno dei maggiori poeti americani, e la sorella minore, Renee, una apprezzata scultrice. Ma qualcosa doveva esserci nel loro DNA: il padre di Diane, David, dopo essersi ritirato dagli affari, si dedicò alla pittura, riuscendo a vendere molto bene i suoi quadri.
Il padre la mandò ragazzina anche a imparare il disegno da un’illustratrice dei “Russek’s”, Dorothy Thompson, che era stata a sua volta allieva di George Grosz. Come si vedrà, queste lezioni spiegano molto bene l’origine di tutta la poetica delle fotografie di Diane Arbus.
A diciotto anni, questa ragazza ricca e bella decise di sposare, contro la volontà dei genitori, un giovane fotografo, Allan Arbus, di cui si era innamorata quando di anni ne aveva solo quattordici. Il marito le insegnò a fotografare e insieme cominciarono a lavorare nel campo della moda. Col cognome del marito, che manterrà anche dopo il divorzio, Diane pubblicò le sue foto sulle maggiori riviste di moda, tra le quali “Vogue”.
I due coniugi Arbus andarono a vivere nel Greenwich Village, che negli anni ’50 era il crocevia del meglio della cultura statunitense. E di personaggi ne conobbero tanti. Tra di loro, un giovanissimo Stanley Kubrick, che molti anni dopo dedicò a Diane un omaggio nel suo “Shining” con la presenza di due inquietanti gemelle: una citazione di una delle più famose fotografie di Diane Arbus.
La giovane, bella e ricca ragazza newyorkese, infatti, si era ben presto stancata del mondo della moda e aveva cominciato a girare per strada a fotografare l’umanità vera, prediligendo i personaggi più inquietanti, quasi sempre decisamente brutti. Fu in quel periodo, alla fine degli anni ’50, che cominciò a esplorare un mondo per lei sconosciuto: le periferie più squallide, gli spettacoli di quart’ordine, il museo di mostri di Hubert dove trovava gli essere umani più strani, dal giovane affetto da gigantismo all’uomo interamente ricoperto di tatuaggi, faccia compresa, al nano messicano, alla donna barbuta. Era particolarmente attratta dagli omosessuali, preferibilmente travestiti da donne: figure rese grottesche dai loro tacchi a spillo, i reggicalze, i bigodini in testa. Diane Arbus fotografava questi personaggi originalissimi con distacco, in modo oggettivo, come se si trovasse di fronte alla normalità. Fotografava la faccia nascosta dell’umanità, un mondo parallelo a quello in cui aveva sempre vissuto e che aveva continuato a frequentare quando si occupava di moda. Il contrario della bellezza, dell’eleganza, della raffinatezza. E anche quando girava per strada, coglieva gli aspetti meno lusinghieri dei personaggi che incrociava e che fotografava utilizzando il flash anche all’aperto, così da rendere più duri i tratti del viso ed esaltare le imperfezioni. Fotografava i malati di mente, soprattutto quando la malattia distorceva i tratti del volto. Molte di quelle immagini ci ripropongono quell’umanità grottesca e per nulla estetizzante che George Grosz disegnava con perfida acutezza. Solo che il pittore tedesco prendeva di mira la gente ricca, quella che si ingrassa con lo sfruttamento e le guerre, mentre Diane Arbus allarga il discorso a tutta l’umanità, dandone una rappresentazione brutale, rifuggendo dalla tentazione di darne una visione idealizzata.
Negli anni ’60, per il suo lavoro ottenne due borse di studio dalla fondazione Guggenheim, riuscì a far pubblicare le sue foto su importantissime testate (Esquire, Bazaar, New York Times, Newsweek, Sunday Times), e nel 1965 espose alcuni suoi scatti al Museum of Modern Art di New York. Il tutto in mezzo a feroci polemiche da parte dei benpensanti e anche alle critiche di chi semplicemente trovava troppo forti, e in qualche caso perfino offensive, le immagini che proponeva. Venne chiamata “la fotografa dei mostri”: un appellativo che le è rimasto appiccicato addosso ancora adesso.
Negli ultimi anni di vita, Diane Arbus soffrì le conseguenze di una brutta epatite e, soprattutto, dovette combattere una grave depressione. E fu a causa di questa che il 26 luglio 1971 si tolse la vita con una forte dose di barbiturici. Un anno dopo la sua morte, il MOMA le dedicò una retrospettiva, e sue foto furono ospitate alla biennale di Venezia. Nel 2006, la sua vita venne raccontata nel film “Fur”, con Nicole Kidman.